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In questo spazio i miei articoli e le mie riflessioni sull’essere umano, sulle sue potenzialità e sulla sua meraviglia!

 

La formazione manageriale

Con la definizione formazione manageriale si intende l’insieme di attività rivolte allo sviluppo di abilità comportamentali utili e spesso indispensabili ad una molteplicità di figure professionali. Il termine manageriale farebbe pensare che tale tipo di formazione sia utile solamente alla figura del managervero e proprio.  In realtà possiamo considerare che qualsiasi professionista si trovi ad interfacciarsi con altre persone possa in qualche modo desiderare di sviluppare determinate abilità che gli consentano di essere più efficace nel proprio lavoro. All’interno della definizione di formazione manageriale rientrano infatti una molteplicità di corsi e per-corsi molto differenti tra loro, che hanno come obiettivo quello di sviluppare appunto abilità diverse e spesso sinergiche tra loro. Si va dalla gestione del tempo alla gestione delle proprie risorse interiori, dallo sviluppo della propria autostima alla gestione dello stress, dall’ascolto alla creazione della propria vision per il futuro, dalla leadership alla gestione di team di lavoro, dalla comunicazione efficace al public speaking, dai corsi di vendita e negoziazione ai corsi sulla gestione del dissenso, dai corsi sulla gestione del cambiamento all’empowerment (termine anglosassone che sta per “sviluppo di fiducia nelle proprie capacità”.  Esistono poi corsi e percorsi che si svolgono in aula e corsi e percorsi che prevedono di trascorrere del tempo svolgendo determinate attività outdoor, dunque all’aperto. Lo scopo di queste ultime è quello di far confrontare i partecipanti in attività che richiedano la capacità di problem solving, lavoro in team, comunicazione efficace, leadership, divisione dei compiti, cooperazione. Solitamente al termine di giornate outdoor ci si ritrova in un’aula per fare il debriefing, ovverosia l’analisi di ciò che è accaduto per riflettere e approfondire le dinamiche vissute. In tal modo è possibile prendere determinate consapevolezze e pianificare come agire in futuro per essere più efficaci. In generale la formazione manageriale nasce per integrare le conoscenze accademiche maturate in ambito scolastico e universitario. La formazione manageriale può risultare utile tanto al neolaureato quanto al professionista da anni sul campo: quando si parla di sviluppare determinate abilità chiunque può decidere di voler diventare più efficace, al di là della sua età, della sua anzianità di lavoro, delle esperienze che ha vissuto. Detto in altre parole: non c’è limite al miglioramento e alla crescita personali. Molto spesso ci si ritrova nel mondo del lavoro avendo sì le conoscenze specifiche richieste per il ruolo.. ma non quelle appunto “comportamentali” utili e spesso indispensabili per poter svolgere il proprio lavoro nel migliore dei modi. L’università si occupa di trasferire tutte le conoscenze necessarie. Così come i vari praticantati assolvono al compito di far fare pratica di quella conoscenza. Il punto è che oggigiorno un professionista non deve soltanto conoscere molto bene la propria materia. Un professionista dovrebbe essere in grado di comunicare efficacemente e di sapersi far ascoltare,  dovrebbe essere in grado di saper parlare in pubblico per vendere idee, progetti, prodotti, servizi. Se un professionista si trova all’interno di un team di lavoro dovrebbe sapere come relazionarsi con gli altri componenti del team. Dovrebbe sapere come farsi valere superando resistenze e obiezioni.  Dovrebbe sapere come pianificare il proprio tempo.. C’è poi da considerare che il mondo cambia, i trend e le tendenze cambiano, il mercato e gli equilibri internazionali cambiano.. quindi ciò che magari fino a ieri garantiva di essere competitivi, oggi dovrebbe essere integrato. Le abilità che si possono acquisire ed integrare grazie alla formazione manageriale sono davvero molte, diverse e sinergiche tra loro. Sul mercato esistono numerose realtà che offrono questa tipologia di corsi e percorsi. Ognuna segue un proprio “metodo”, una propria filosofia. Ciò che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo, n.d.r.) accomunare le realtà della formazione (e renderle in qualche maniera diverse rispetto alla realtà dell’istruzione) è dato dal fatto che le dinamiche d’aula sono decisamente interattive, portano i partecipanti ad imparare “facendo” e non solo ascoltando, coinvolgono grazie a role-play, cioè simulazioni durante le quali i partecipanti si confrontano, agiscono, giocano ruoli simulando ciò che poi accade nella realtà lavorativa. Di sicuro anche nella formazione esiste una quota di tempo dedicata al trasferimento di conoscenza, dunque: dati, definizioni, schemi, diagrammi, nozioni. Ma poi una formazione che sia realmente tale si preoccupa soprattutto di “spingere” i partecipanti a confrontarsi attivamente, a testare determinate dinamiche, a mettere in pratica direttamente dentro l’aula di formazione tutto quanto viene visto e analizzato. La formazione non dovrebbe limitarsi a trasferire conoscenze (acquisibili per altro anche grazie a letture di libri specialistici, trattati, saggi, audio e videocorsi; dovrebbe invece andare oltre il livello dell’acquisizione della conoscenza ed arrivare a sviluppare l’abilità stessa. Di sicuro all’interno di un’aula si sarà sempre in un contesto che per quanto “realistico” non potrà mai essere equivalente alla realtà vera e propria; al contempo si potranno però testare praticamente concetti, metodologie, simulazioni che permettono di acquisire la necessaria sicurezza per agire poi nella realtà lavorativa. Per quanto riguarda il mestiere del formatore bisogna dire che gli “sbarramenti all’ingresso” per proporsi in questo campo sono molto bassi.. Chiunque può aprirsi una partita iva, registrare una società di servizi, crearsi un sito internet accattivante, stamparsi dei biglietti da visita con su scritto “formatore” e proporsi come tale..per cui il mercato pullula di seri professionisti e di sedicenti tali, come del resto per altre professioni. Dunque per chi volesse avvalersi di un formatore.. il consiglio più vecchio del mondo rimane quello di chiedersi: da quanto tempo è sul mercato, con quante persone/quali realtà aziendali ha lavorato, che referenze vanta. Il mondo della formazione è davvero molto ricco e variegato. E sono migliaia e migliaia i professionisti pronti a testimoniare l’efficacia della formazione, valutata concretamente in termini di aumentate performance e maggiore efficacia. Non rimane dunque che chiedersi quali sono le abilità che si ritiene indispensabile sviluppare e cercare sul mercato la realtà formativa più adatta alle proprie esigenze.

 

L'arte dell'ascolto

“Un dotto filosofo si recò un giorno da un monaco zen, conosciuto come uomo di grande saggezza, con lo scopo di metterlo alla prova sui massimi temi della conoscenza. Il monaco accolse il filosofo e si diede subito a preparare il tè - così come si conveniva.Il dotto filosofo iniziò subito un'accorata e profonda dissertazione sulle tesi sostenute dalle varie dottrine, per dimostrare quali erano, secondo lui, gli errori in cui erano incorse. E così, quando finalmente giunse il momento di servire la bevanda, l'impalcatura teorica del filosofo era costruita e apparentemente ben solida."Che ne dite: siete d'accordo?" chiese il filosofo. Il monaco, senza proferire alcuna parola, poggiò la tazza davanti al suo ospite. Nonostante la tazza fosse già piena  il monaco continuò a versarvi del tè, facendolo traboccare e spargendolo tutt'intorno.Prima sorpreso, poi profondamente colpito e commosso, il filosofo si inchinò con grande devozione: "Ora capisco..  La mia mente è come questa tazza: troppo piena di ciò che già contiene per poter accogliere ciò che ancora non conosce”. 

Questa storia zen ci illustra molto efficacemente l’importanza della capacità di ascoltare. Molte persone sottovalutano questa facoltà e in qualsiasi relazione si trovino pensano prevalentemente a parlare attivamente da protagonisti,invece di lasciar parlare chi hanno di fronte. L’attività di ascolto passa in realtà attraverso differenti livelli. All’estremo più negativo troviamo l’ “ignorare”: in questo caso pensiamo completamente ad altro, incuranti dell’interlocutore. Dall’ignorare completamente il nostro interlocutore passiamo all’ “ascolto apparente”: facciamo solamente finta di ascoltare, ma in realtà passiamo in rassegna, nella mente, i nostri pensieri personali. Successivamente, in questa scala “valoriale” di ascolto, troviamo l’ascolto “selettivo”: ascoltiamo solo ciò che ci fa comodo e ci interessa. Oltre questo livello di ascolto troviamo quello “attento”: vogliamo realmente capire il senso e il significato delle parole dell’interlocutore. Infine troviamo il vero e proprio ascolto, quello più profondo e impegnativo, perché esige maggiore sforzo, impegno, “proiezione” verso l’interlocutore: parliamo dell’ascolto “empatico”. In questo caso ci impegniamo nella comprensione per cogliere, più in profondità, lo stato d’animo dell’interlocutore. Il vero ascolto non è dunque fatto di sole orecchie, ma anche e forse soprattutto di occhi, cervello, cuore. Ascoltare attentamente o empaticamente richiede dunque una precisa scelta intenzionale, per limitare il nostro egocentrismo e il nostro desiderio di protagonismo. L’essere umano ha infatti l’innata tendenza a volersi mettere in luce, ad ottenere attenzione, ascolto. Dunque quando ci troviamo qualcuno di fronte è abbastanza naturale tendere a voler prendere la parola, commentare, saltare a delle conclusioni, dare la nostra versione, la nostra lettura, la nostra sentenza, prevaricando spesso chi abbiamo di fronte. Ascoltare è dunque importante per molti motivi, perché ci permette di: far sentire importante l’interlocutore, comprendere nuove letture diverse dalle nostre, creare le basi per una relazione fruttuosa, raccogliere nuovi dati, scoprire nuovi concetti. L’arte dell’ascolto (perché di vera arte si tratta) si può imparare. Alcuni consigli per migliorare nell’ascolto attento e/o empatico: chiedersi chi si ha di fronte e cosa lo caratterizza e/o rende unico, considerare che chiunque può essere fonte di arricchimento, interrompere il processo mentale che ci porta solo a costruire frasi e pensieri dalle parole che ascoltiamo dal nostro interlocutore, focalizzare l’attenzione sul significato del discorso e non sulle singole parole ascoltate, evitare di saltare prematuramente a trarre conclusioni (ascoltare fino alla fine il pensiero altrui), di tanto in tanto riformulare e sintetizzare i concetti dell’interlocutore, fare domande, chiedere chiarimenti in merito ad alcuni passaggi che non ci sono chiari. Saper ascoltare è una facoltà indispensabile per chiunque desideri relazionarsi efficacemente, produrre risultati nel mondo dell’università, del lavoro, del business, nella vita. Non a caso il filosofo greco Epitteto disse: “Se gli Dei ci hanno dotati di due orecchie e di una sola bocca dovremmo ascoltare il doppio di quanto parliamo”!

 

 

L'efficace gestione del tempo

Il tempo è cosa ne facciamo di esso. Presi, nell’era odierna, da un turbine di impegni e attività, interessi e appuntamenti, scadenze , esami e prove, diventa indispensabile fermarsi a riflettere su come impieghiamo le ventiquattro ore che abbiamo a disposizione quotidianamente. Studenti e docenti, impiegati e dirigenti, liberi professionisti e ricercatori si trovano a dover fare i conti con una delle risorse più preziose e limitate che la vita ci dispensa. Teoricamente le attività che potremmo svolgere sono infinite, mentre il tempo che abbiamo a disposizione per svolgerle è finito. Dunque diventa necessario decidere consapevolmente cosa fare e a cosa rinunciare, così come cosa fare prima e cosa rimandare. Per comprendere meglio il concetto è utile riflettere sulle due principali direttrici che determinano le azioni che intraprendiamo: l’importanza e l’urgenza. La prima riguarda il “valore” dell’attività stessa, mentre la seconda riguarda la relazione tra l’attività in questione e la scadenza temporale per portarla a termine. Facciamo un esempio. Ciascuno, all’interno della propria routine lavorativa o di studio, ha da svolgere attività diverse tra loro. Diverse in relazione alla loro importanza e alla loro urgenza. Ipotizziamo che una persona abbia da svolgere settimanalmente cinque differenti attività: scrivere relazioni, effettuare telefonate, compilare delle tabelle, studiare determinati documenti ed effettuare due visite sul campo. Queste cinque attività hanno tutte una propria importanza, e, allo stesso tempo, una loro urgenza in relazione alla scadenza prevista. Ora il punto è che il tempo dedicato a ciascuna attività, così come l’ordine di esecuzione di ciascuna, ovviamente insieme alla qualità dell’esecuzione, determineranno i risultati finali che otterremo. L’importanza e l’urgenza delle attività che dobbiamo svolgere determina il concetto di priorità. Teoricamente dovremmo svolgere le nostre attività quotidiane in base alla priorità che hanno. Consideriamo il seguente schema, dove in orizzontale, crescente da sinistra a destra, troviamo la variabile “importanza”, mentre in verticale, crescente dal basso verso l’alto, troviamo la variabile “urgenza”.

     

A

Molto urgente

Poco importante

B

Molto urgente

Molto importante

C

Poco urgente

Poco importante

D

Poco urgente

Molto importante

 

Come si potrà notare all’interno dello schema troviamo quattro differenti categorie di attività, da quelle del quadrante “A” – “Poco importanti e Molto urgenti” a quelle del quadrante “D” -  “Poco urgenti e Molto importanti”. Ciascuna delle nostre attività può e deve rientrare in uno di questi quattro quadranti. Ciò che accade molto spesso è che le persone non decidono di agire seguendo il criterio della priorità, bensì quelli dettati da altre variabili, come: “piacere”, “abitudine”, “caso”.. Molti credono che iniziare le proprie giornate svolgendo attività più piacevoli di altre, oppure dedicare la maggior parte del tempo ad attività che riescono loro più facili e congeniali, rappresenti la cosa più opportuna. In realtà nel decidere cosa fare e in che ordine farla, dovremmo porci una ben precisa domanda: “se fossi costretto a dover rinunciare a qualcuna delle attività previste per la giornata, quale sarebbe quella che comporta meno perdite”? Probabilmente iniziare la giornata con attività più piacevoli di altre, ci predispone positivamente e ci fa partire con maggiore slancio. Ma dobbiamo fare i conti con il fatto che la routine quotidiana è piena di imprevisti. Ecco quindi che, poiché il rischio di non avere sufficiente tempo per svolgere tutto è sempre presente, diventa cruciale decidere cosa fare e in che ordine farlo. L’ordine di esecuzione delle varie attività è in relazione anche alla qualità dell’esecuzione stessa. E’ evidente infatti che i nostri livelli di energia e concentrazione abbiano dei limiti. Anche per questa ragione decidere di svolgere un’attività durante le prime ore della mattina, nel pomeriggio o alla sera, influirà sulla qualità dell’esecuzione stessa. In un “mondo ideale” le attività che ci troviamo a svolgere dovrebbero essere preferibilmente nel quadrante “D”, quello delle attività molto importanti ma poco urgenti. In questo caso ci troveremmo a svolgere azioni della massima importanza, ma senza subire la morsa del tempo che può generarci ansia e tensione. La realtà più diffusa invece, molto spesso, è quella di trovarsi alle prese con azioni molto urgenti e molto importanti. Dovendo svolgere molte attività, tutte soggette a “scadenza imminente”, ecco che ci troviamo “nel pallone”. Da queste considerazione nasce l’idea di programmare le proprie attività in modo tale da poter gestirle progressivamente prima che diventino urgenti, ovvero “troppo prossime alla loro scadenza”. Qualcuno obietterà che è impossibile programmare tutte le attività, dal momento che nell’ambito sia professionale che personale, ci sono una miriade di imprevisti pronti a “sabotare” i nostri buoni propositi. Ma il punto è proprio questo! Proprio perché esistono una miriade di imprevisti non programmabili e pronti a far saltare i nostri piani, diventa di vitale importanza avere tali piani! Immaginate infatti il risultato disastroso che si avrebbe se gli imprevisti ci impedissero di portare a termine proprio le attività più importanti e vitali che noi, per nostra libera scelta, abbiamo deciso di posticipare. Così come anche di fronte ad una scadenza imminente può risultare più opportuno dedicarsi ad altra attività se questa risulta essere più importante e “vitale” rispetto a quella prossima alla scadenza (interrompere una determinata attività per dedicarsi ad un’altra che andrebbe conclusa entro un determinato orario potrebbe non essere la scelta migliore, perché il “danno” conseguente dal non dedicarsi  alla prima potrebbe essere ben maggiore del “danno” derivante dal non portare a termine la seconda! Nella mia attività quotidiana di formatore mi sono trovato molto spesso di fronte a professionisti che mi hanno candidamente confidato: “nell’ aprire la mia posta elettronica mi sembra coretto leggere le e mail secondo l’ordine del loro arrivo..”, oppure: “dovendo effettuare due visite a clienti, preferisco andare prima da Tizio e poi da Caio, perché Tizio è più simpatico e mi mette di buon umore, mentre Caio è più “impegnativo” e antipatico..”. Capite bene che non può essere questo il criterio di gestione del proprio tempo! Perché nel leggere le e mail dovremmo chiederci: “qual è prioritario che legga prima? A chi devo rispondere prima? Quale e mail posso anche non leggere o leggere più tardi?”. Allo stesso modo, per le visite a clienti, dovremmo chiederci: “qual è il cliente più importante da visitare per primo? Se subentrasse un imprevisto e fossi costretto a perdere una delle due visite, quale perdita sarebbe meno grave delle due? Dovendo programmare una visita alla mattina e una al pomeriggio, quale cliente è più probabile che trovi maggiormente disponibile alla mattina e quale al pomeriggio?”. Anche per gli studenti valgono gli stessi presupposti. Avendo tempo ed energie limitati per preparare gli esami, e dovendo spesso preparare più esami contemporaneamente, è fondamentale programmare non solo la mole di studio quotidiano in vista della scadenza degli esami, ma anche l’ordine di tale studio. Cioè diventa vitale cosa studiare prima e quando, in riferimento alle ore della giornata. Se poi consideriamo che anche gli studenti devono fare i conti con imprevisti quotidiani è facile comprendere che una buona programmazione dello studio deve considerare di non poter contare su tutte le ore teoriche libere.. bensì su molte meno! Se si hanno sessanta giorni per preparare un esame non è ottimale suddividere tale mole di studio per sessanta giorni, bensì considerare di doverla terminare in almeno tre quarti del tempo. In questo modo, se non ci sono imprevisti, si avrà più tempo per ripassare e approfondire ulteriormente, mentre se ci saranno imprevisti, questi non comprometteranno la tabella di marcia ipotizzata. Se si vuole realmente prendere consapevolezza della propria attitudine e abilità nella gestione del tempo è possibile svolgere un’utile analisi, semplice quanto “potente”. E’ necessario semplicemente un foglio e una penna (chi preferisce può utilizzare un computer), sul quale creare un semplice schema fatto di sette colonne e una decina di righe. In testa alle colonne scriverà il giorno della settimana, mentre in orizzontale riporterà le fasce orarie, dalle 08:00 alle 09:00, dalle 09:00 alle 10:00 e così via. L’obiettivo di tale lavoro è quello di riportare fedelmente le attività svolte in ciascuna fascia oraria o frazione di essa. Fedelmente significa scrivere esattamente e sinceramente cosa si è fatto nei minuti di ciascuna fascia oraria. Se si avrà il “coraggio” di annotare tutto ciò che si pratica nel corso delle 8-10 ore quotidiane “lavorative”.. si scoprirà come si impiega il proprio tempo. E premetto che potrebbe trattarsi di una “cruda” scoperta! Perché riportare fedelmente in una tabella le proprie attività (tutte!), significa scrivere anche “telefonate personali”, “navigazione di svago su internet”, “lettura e scrittura di e mail di piacere”, “pause caffè”, “attività superflue”, “tempi morti”. E potrebbe meravigliare notevolmente la presa di consapevolezza di quante preziose ore della nostra vita professionale e personale siano dedicate ad attività a bassissimo “valore aggiunto”! Allo stesso tempo si avrebbe una ben precisa fotografia delle propria capacità di svolgere le diverse attività secondo l’ordine della “priorità”, piuttosto che del “piacere” o dell’abitudine. Il tempo è cosa ne facciamo di esso. Essendo la nostra vita scandita del tempo..la vita stessa è ciò che ne facciamo di essa. Buona gestione della vostra vita!        

 

 

La zona di Confort

Ciascun individuo è solito muoversi attraverso una serie di routine date da schemi mentali e abitudini. Esiste una definizione che descrive l’area entro cui ciascuno di noi si muove usualmente: zona di confort. Si tratta di una sorta di “casa mentale” entro cui ci sentiamo a nostro agio. La zona di confort è soggettiva. Ciascuno di noi considera all’interno della propria zona di confort una moltitudine di pensieri ed azioni. Ciò che si trova all’interno della propria zona di confort ci dà sicurezza perché lo conosciamo, lo sappiamo fare, lo possiamo prevedere. Tutto ciò che è fuori dalla zona di confort è invece sconosciuto. Purtroppo spesso si dimentica di considerare che ciò che facciamo e pensiamo all’interno della nostra zona di confort non rappresenta ciò che potrebbe generare per noi l’arricchimento maggiore. Facciamo qualche esempio per capire meglio il concetto. Spesso le persone decidono di continuare a stare con qualcuno, frequentare le stesse persone, andare negli stessi posti, praticare le stesse attività perché è comodo e “confortevole” ciò che già conoscono. In realtà non è affatto detto che siano pienamente soddisfatte di tali cose e persone, ma continuano a viverle perché sono prevedibili, non riservano imprevisti.  Al confine tra zona di confort e “non confort” ci sono sentimenti quali “paura”, “ansia”, “incertezza”, “dubbio”… Il punto è che continuando a rimanere dentro la propria zona di confort le persone non potranno mai sperimentare nuove situazioni, nuove possibilità, nuove conoscenze. A volte dunque può risultare utile fermarsi un attimo a considerare se nella propria vita si stia rimanendo “troppo” dentro la propria zona di confort e se non convenga decidere di uscire a sperimentare qualcosa si nuovo: nuove persone, nuovi posti, nuovi approcci, nuove routine. Il miglioramento in qualsiasi campo spesso risiede proprio fuori dalla zona di confort entro cui ci si muove. Superare la soglia tra “conosciuto” e “nuovo” rappresenta dunque la chiave di volta per scoprire nuove strade ed ottenere maggiore pienezza nella propria vita.  

 

 

La Vision

 “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sappia doveandare”. Questo aforisma di Seneca ci fa riflettere sull’importanza e la necessità di sapere qual è la direzione che si intende raggiungere e dunque quali sono le scelte che è opportuno compiere per arrivare a tale destinazione.  Dove sarai e cosa avrai raggiunto esattamente tra un anno? Che tu sia uno studente, un docente, un dirigente, un libero professionista o una casalinga, questa domanda rappresenta uno strumento dall’enorme portata. Fermarsi un attimo durante la nostra routine quotidiana e fare un bilancio del proprio stato attuale,  considerare dove si vuole andare e cosa si vuole raggiungere può aumentare notevolmente le possibilità di arrivarci realmente. Immaginare dove si vuole essere da qui ad un lasso temporale di un anno circa significa creare all’interno del proprio cervello una Vision, cioè una sorta di proiezione di uno scenario futuro che rispecchia i valori e le aspirazioni personali. Molto spesso viviamo in preda agli impegni accumulatisi, alle urgenze e all’abitudine, che non sempre rappresentano gli stimoli migliori per fare della nostra vita ciò che realmente vorremmo. Dunque chiudere gli occhi e pensare attivamente ed intenzionalmente a cosa vogliamo raggiungere diventa doveroso per nutrire adeguatamente il nostro cammino e individuare i passi migliori da compiere. Detto ciò potrebbe sorgere il dubbio che la Vision sia accomunabile ad un obiettivo da raggiungere. In effetti in parte lo è, ma mentre quest’ultimo è più “semplice” e circoscritto, legato cioè ad una specifica “area”, la Vision rappresenta semmai il coronamento del raggiungimento di una serie di obiettivi. E anche qualcosa in più.. Vision significa avere ben chiara nella propria mente la risultante globale di una serie di azioni  e di scelte che si intende compiere. Significa dunque “vivere” mentalmente ed anticipare lo “stato” in cui ci si troverà, con tutto ciò che si proverà a livello di emozioni, sensazioni, pensieri, stati d’animo. L’idea della creazione della propria Vision nasce dalla considerazione che il nostro cervello non distingue tra un’esperienza realmente accaduta e una “solo” vividamente immaginata.. A chi non è mai capitato di svegliarsi durante il sonno e di trovarsi “alterato” nel proprio stato emotivo e fisiologico? Magari con il cuore che batteva forte, sudato, sorridente o intimorito.. Riflettiamo: stando nel proprio letto, in silenzio ed al buio, durante il sonno.. qualcosa avviene solo nella propria mente.. eppure condiziona realmente la fisiologia e le emozioni del corpo. Ecco dunque l’intuizione di decidere intenzionalmente di creare nella propria mente un ben determinato scenario, ricco di immagini, persone, suoni, colori, azioni, emozioni in grado di sortire un effetto condizionante per il nostro cervello che reagirà come se quell’insieme di elementi fosse reale! Una volta che nella profondità di noi stessi abbiamo creato questo stato desiderato e percepito come “vivo” e “reale”, si innescheranno una serie di reazioni a catena che ci consentiranno di intraprendere le azioni e le scelte più opportune e funzionali per raggiungere concretamente ciò che abbiamo creato nella mente. Un antico aforisma orientale recita “se hai chiaro il cosa troverai il come”, cioè se hai chiaro nella tua mente cosa ti sta realmente a cuore raggiungere troverai dentro di te le strategie, le scelte, le azioni da compiere per arrivare a ciò che ti sei prefissato. Dopo avere chiuso gli occhi ed aver immaginato la propria Vision è fondamentale scriverla, perché scrivere rappresenta un ulteriore strumento per dare forma ai pensieri, per lasciarne traccia, per sancire una sorta di patto interiore con noi stessi. Aumenta dunque ancora di più l’impatto che la Vision avrà su noi stessi. Scrivere inoltre aiuta a prendere consapevolezze. E rileggere ciò che abbiamo scritto ci serve per ragionare ulteriormente, affinare le nostre scelte, capire ancora meglio chi siamo e cosa è realmente importante per noi. Passando ad un piano più tecnico di indicazioni per la creazione della Vision ci sono determinate considerazioni da fare. Innanzitutto proprio per avere quell’impatto forte sul nostro cervello dovrebbe essere pensata al tempo presente! Sì, può sembrare strano pensare al futuro raccontandoselo al presente, ma è proprio qui che si inizia a dare al proprio cervello quell’input forte e cristallino che stimola come se fosse una cosa reale, esattamente come accade durante i sogni. Il tempo futuro è solo una nostra invenzione, il tempo passato è passato. Il tempo presente è invece l’unico tempo reale che ci è dato vivere e percepire. Dunque immaginare al presente qualcosa che avverrà poi solo in seguito fa sì che noi lo percepiamo con la massima forza e realtà. Inoltre una Vision dovrebbe essere “positiva” nel senso che dovrebbe rappresentare ciò che si vuole più di ciò che non si vuole. Sono in molti infatti a riflettere sulle cose che non amano nella propria vita, le conoscono alla perfezione, se le recitano come un mantra.. ma poi di fatto non hanno ben chiaro in mente cos’è che invece desiderano in alternativa! Una Vision dovrebbe essere circoscritta in un lasso temporale indicativo di massimo un anno. Questo non perché non si possa avere una Vision da qui a due, tre o cinque anni, ma perché se ci poniamo una scadenza troppo lontana la spinta motivazionale per iniziare ad agire diversamente da come siamo abituati diventa minore. Al contrario sapere che è iniziato un countdown di massimo 365 giorni ci dà il giusto senso di urgenza. Nel caso in cui qualcuno abbia una Vision di durata superiore all’anno, può risultare utile “frazionarla” in blocchi di durata inferiore. Quindi, per fare un esempio, una Vision che si coronerà nel 2012 può essere scomposta in diversi step progressivi. Detto in altri termini: se nel 2012 la propria Vision prevede che avremo raggiunto una determinata “destinazione”, dove dovremo essere già nel 2011? Continuando nella disamina delle indicazioni per la creazione di una Vision efficace ricordiamo che dovrebbe essere ben ricca di dettagli, coinvolgendo i sensi ai quali ciascuno risulta maggiormente sensibile. Dunque nella propria Vision è utile immettere colori, suoni, odori, dettagli cromatici, dialoghi, parole, sensazioni, panorami. In questo modo l’appeal della Vision risulta essere molto maggiore perché noi tutti siamo sensibili a ciò che è ricco, colorato, “vivo”, dettagliato. Qualcuno sarà più sensibile alle forme e ai colori, qualcun altro agli odori e ai profumi. Ci sarà poi chi sarà più sensibile ai suoni e chi invece al senso del tatto o del gusto. E’ opportuno dunque che ciascuno inserisca nella propria Vision quegli elementi sensoriali verso i quali risulta maggiormente incline e sensibile. Volendo approfondire ulteriormente il concetto possiamo specificare che la Vision è diversa dall’insieme delle azioni e scelte che si intende intraprendere per migliorare la propria vita personale e professionale. Se da una parte fermarsi ed individuare un insieme di scelte che si intende compiere, individuare delle azioni specifiche che si intende intraprendere per migliorare determinati aspetti rappresenta senz’altro un lavoro utile e importante, è bene ricordare che la Vision rappresenta qualcosa di diverso. La Vision è cioè il risultato finale, lo stato raggiunto così come sarebbe se con una sorta di bacchetta magica potessimo in un istante trovarci nella situazione desiderata. Nel creare la Vision non è utile iniziare a pensare già a cosa si dovrà fare concretamente per ottenere il cambiamento desiderato. No! Nella Vision dobbiamo vederci, percepirci, sentirci come già arrivati a destinazione, con tutto ciò che desideriamo essere ed avere! Questa è la chiave di volta di questo strumento. E’ indispensabile “essere” già chi vogliamo essere, pensare come se già fossimo chi vogliamo diventare. Ecco dunque che si fa strada un’altra considerazione doverosa, inerente la reale fattibilità di ciò che vogliamo essere ed ottenere. Una Vision deve essere stimolante, sfidante, ma pur sempre realizzabile. Non è utile che sia un puro miraggio, un sogno. Per rimanere concreti ed “operativi” è dunque necessario pensare ad una Vision impattante e motivante ma poi di fatto realizzabile. Facciamo un esempio. Immaginiamo che si intenda inserire nella propria Vision una migliore forma fisica, un miglioramento economico, una maggiore quantità e qualità del tempo libero e magari anche, perché no, un miglioramento della propria sfera relazionale (conoscenze, amici, frequentazioni), bisogna essere ben consapevoli del punto da cui si parte, della propria situazione attuale, delle reali potenzialità ed inclinazioni personali e del lasso temporale entro cui si intende raggiungere la Vision. Dunque immaginarsi da qui a un anno miliardari, atleti agonisti, a capo di un’azienda e magari soci onorari di più circoli culturali potrebbe risultare “troppo” se si parte da una situazione molto lontana da questo scenario.. Ma magari nell’arco di un anno ci si può vedere con meno chili di troppo, assidui frequentatori di un club di fitness, a svolgere un lavoro diverso o un diverso ruolo più remunerativo, meglio organizzati sul proprio posto di lavoro, in modo tale da terminare le routine lavorative con sufficiente energia da poter dedicare ad altre attività che consentano di conoscere altre persone e organizzare altri eventi.. In buona sostanza per creare una Vision utile è indispensabile porsi determinate domande “potenti” che ci aiutino a proiettarci da qui ad un anno per poter poi iniziare ad agire diversamente e, trascorso un anno, verificare ciò che abbiamo raggiunto ed apportare gli opportuni “aggiustamenti di tiro” qualora non abbiamo raggiunto la Vision. Tra le domande utili e “potenti “ da porsi troviamo: “dove voglio trovarmi tra un anno?”, “come voglio sentirmi?”, “quali risorse ho al momento che potrebbero aiutarmi?”, “quali aspetti della mia vita voglio migliorare?”, “chi sarò tra un anno?”, “chi ci sarà con me?”, “quali emozioni desidero provare?” “perché per me è importante raggiungere quella destinazione?”. “Immagina un’automobile che viaggia nella notte. I fari consentono di vedere solo dai 30 ai 60 metri davanti, e allo stesso tempo è possibile percorrere tutta la distanza tra la Carolina e New York guidando nell’oscurità, perché tutto ciò che è necessario vedere sono i 30-60 metri successivi. Questo è il modo in cui la vita tende a svolgersi sotto i nostri occhi. Se si confida nel fatto che dopo i primi 60 metri si riveleranno i successivi 60 e così via, la vita procederà e alla fine ci porterà a destinazione facendoci ottenere ciò che desideriamo veramente per il semplice fatto che lo desideriamo realmente ed intensamente”. Queste parole dello scrittore e formatore Jack Canfield fanno riflettere sul fatto che l’intero viaggio della vita è composto di tanti piccoli viaggi che a me piace definire Vision. Hellen Keller, attivista che si è battuta per i diritti dei più deboli e diversamente abili fu intervistata un giorno da un giornalista che le chiese se esistesse qualcosa di peggiore del fatto di non avere la vista. Hellen Keller, prontamente e serenamente rispose: “Certo! Peggio di non avere la vista c’è.. avere la vista ma non avere una Vision!”. Questa risposta già di per sé autentica e motivante diventa “speciale” se si considera che Hellen Keller è diventata sordo-cieca quando aveva appena 19 mesi. Dunque non mi rimane che chiedervi nuovamente: “Qual è la vostra Vision? Dove sarete tra un anno?”.

 

 

Le domande potenti

Numerosi studi hanno dimostrato che le nostre azioni sono il frutto del nostro pensiero e che quest’ultimo consiste nel trovare determinate risposte a determinate domande che, consciamente o inconsciamente ci poniamo. Detto in altre parole ciò che “agiamo” come comportamento è la conseguenza di decine di migliaia di domande che quotidianamente hanno luogo nel nostro cervello. Il punto è che a seconda della qualità della domanda che ci poniamo conseguirà una determinata qualità di risposte che andranno a loro volta  a determinare il nostro comportamento. La maggior parte delle domande avvengono all’interno del nostro cervello in modo inconsapevole. E’ estremamente interessante però considerare che ci è dato decidere di porci domande a livello consapevole. Soprattutto in determinate circostanze, quando dobbiamo decidere su questioni delicate, le domande che ci poniamo possono fortemente influenzare le risposte che troveremo e quindi le premesse per il tipo di azione che andremo a compiere o per l’interpretazione che daremo di un fatto accaduto. Ad esempio molto spesso, di fronte ad un accadimento magari deludente, siamo portati a chiederci “perché”. Ora sebbene le domande che iniziano con “perché” stimolino enormemente il nostro cervello, molto spesso non ci consentono di ottenere dati utili per migliorare uno stato di fatto. Sin da bambini cresciamo incitati a chiederci il “perché” di qualsiasi cosa.. Ma sebbene da bambini chiedersi “perché” rappresenti un modo utile per sviluppare le capacità del nostro cervello.. da grandi chiedersi “perché” spesso è poco proficuo.. perché siamo molto bravi a trovare “risposte di circostanza” che giustifichino apparentemente determinati scenari.. ma che di fatto non cambiano concretamente nulla… Molto più utile è invece iniziare a chiedersi: “Come posso fare a “, “Quali risorse ho dimostrato di avere in passato e che ora potrei utilizzare nuovamente?”, “Cosa ho imparato da questo evento?”, “Cosa ho scoperto di me in seguito a questo fatto?”. Di fronte a qualsiasi fatto accaduto, scelta da intraprendere, comunicazione ricevuta… siamo inconsciamente portati a chiederci qualcosa… Ciò che voglio sottolineare è che abbiamo la facoltà di decidere cosa chiederci! E se impariamo a chiederci la cosa “giusta”..aumentiamo le possibilità di trovare spunti per agire in modo più proficuo, opportuno, efficiente, efficace, adatto. Sto parlando delle “domande potenti”, quelle domande che aumentano le nostre possibilità di scelta. Fermatevi un attimo. Prendete consapevolezza di cosa vi state chiedendo riguardo una determinata questione da affrontare, un fatto accaduto, una comunicazione ricevuta….. Immagino che alcune delle possibili domande che vi state ponendo siano: “Perché mi è capitata questa cosa?”, “Perché proprio ora?”, “Perché proprio a me?”, “Perché dovrei farlo?”, “Perché ….. Provate ora a sostituire queste domande “poco potenti”… con domande quali: “Dal momento che è accaduto.. o dal momento che devo farlo… come posso farlo? Quali strategie posso adottare? Chi potrebbe aiutarmi nella soluzione? Cosa imparerò da questo evento? Cosa sto scoprendo che mi sarà utile in futuro? Quali strumenti possono aiutarmi? Quali conoscenze possono facilitami? Quali risorse so di avere e che non sto considerando? Come mi sentirò una volta portato a termine l’obiettivo? In che modo sono/sarò una persona migliore intraprendendo questa azione o prendendo atto di ciò che è accaduto? La lista di “domande potenti” è pressoché infinita.. Sta a ciascuno di noi scegliere quella più opportuna in base alla circostanza nella quale ci troviamo. Ogni volta che viviamo uno stato di “empasse” riguardo qualcosa che è accaduto o che ci troviamo ad affrontare è della massima importanza chiedere al nostro cervello la cosa migliore, quella che gli consenta di trovare un maggior numero di elementi e spunti validi per operare significative azioni. Coerentemente con quanto detto sino ad ora..non mi resta che suggerirvi di chiedere a voi stessi: “In che modo posso trarre concreto vantaggio dal contenuto di questo articolo?”.

 

 

L'autostima

L’autostima può essere considerata come la risposta alla domanda: “Cosa penso di me”.  Detto in altre parole l’autostima è strettamente legata all’idea del “valore” che ciascuno pensa di avere. Avere una buona autostima permette di sentirsi “adeguati” ed in grado di vivere in equilibrio con se stessi e con l’ambiente nel quale si è inseriti. Alcune persone godono di un’ ottima autostima, mentre altre hanno bassi livelli di autostima e conseguentemente vivono una situazione di insoddisfazione ed inadeguatezza. Dunque come si forma l’autostima e cosa è possibile fare per aumentarla? Per rispondere a queste domande è indispensabile considerare che l’autostima si forma come risultante di una serie di variabili cognitive, affettive e sociali. Infatti ciascun individuo possiede un determinato bagaglio di conoscenze che gli consentono di leggere ed interpretare le situazioni che si trova a vivere. E’ vero poi che concorre alla formazione dell’autostima del soggetto il mondo affettivo all’interno del quale si trova. L’affetto ricevuto, le attenzioni ricevute, il “calore” che si sperimenta concorrono ad influenzare la sensibilità di ciascuno nel provare sentimenti. Infine gioca un ruolo determinante il contesto sociale all’interno del quale si è inseriti; infatti l’appartenenza a gruppi, la possibilità di avere una qualche influenza su questi, così come il ricevere o meno approvazione dai componenti dei vari gruppi, concorrono a sviluppare in ciascuno un determinato senso di autostima. 

Bisogna inoltre considerare che l’autostima è una percezione soggettiva che muta nel tempo, come conseguenza dei cambiamenti che si vivono. L’autostima è dunque legata al modo in cui ciascuno vive se stesso e con se stesso, e al modo in cui ciascuno vive le relazioni con gli altri. Dunque ciascuno di noi si crea una determinata idea su se stesso in base a sensazioni che vive dentro di se e in base a feedback che riceve dall’ambiente circostante.

E’ interessante considerare che alcune persone mantengono alti livelli di autostima pur in presenza di ripetuti fallimenti, mentre altre sviluppano bassi livelli di autostima pur di fronte a risultati soddisfacenti. Ciò sottolinea ulteriormente che il fattore “autostima” sia soggettivo e non oggettivo. Inoltre fa riflettere sul fatto che dipenda molto dalle “letture” e dalle “interpretazioni” che si danno agli accadimenti che ci circondano. Un conto è fermarsi a dirsi: “Ho fallito questa performance”, altra cosa è dire: “Ho compreso dove e perché ho sbagliato, ho imparato dall’errore ed ora sono in grado di modificare il comportamento per produrre il risultato.

Di certo l’ambiente nel quale si è cresciuti, gli apprezzamenti che si sono o non si sono ricevuti, i giudizi e i feedback che genitori, maestri, professori, amici ci hanno dato concorrono enormemente a determinare il livello di autostima di cui ciascuno di noi gode. E’ però interessante considerare che ciascuno di noi non è solamente tutto ciò che è stato e che ha ricevuto, bensì tutto ciò che può ancora essere e ricevere. Nello stabilire il proprio livello di autostima un ruolo determinante è giocato dall’atteggiamento di ciascuno. Infatti pur di fronte a risultati deludenti e a performance scadenti è fondamentale saper prendere in considerazione una lettura più ampia delle circostanze che permetta al singolo di dare il giusto peso all’evento e che gli consenta se non altro di capire dove e perché ha fallito, in modo tale da poter modificare le azioni, così da ottenere risultati diversi.

Spesso poi la nostra autostima bassa dipende dai parametri che si prendono in considerazione. Se si prendono degli standard che non ci appartengono, se decidiamo di misurarci con scale valoriali e comportamentali di altri, è probabile che possiamo risultare “inadeguati”. Il segreto risiede nel considerare che ciascuno di noi è unico ed irripetibile. Ciascuno di noi ha delle caratteristiche uniche che lo rendono “valido”. Spesso  la società, i media, la pubblicità faranno di tutto per omologarci e persuaderci che se non siamo “così” o “così” non valiamo, non siamo “accettabili”.. Al contrario dobbiamo essere noi a stabilire quali sono le cose importanti per noi, quale il metro di valutazione del nostro valore. Se operiamo un cambiamento del genere è possibile che ciascuno riscopra la sua essenza, il suo valore, e, di conseguenza, migliori la stima che ha di sé. 

Può risultare utile considerare infine l’autostima come rapporto tra sé percepito e sé ideale; il primo è la considerazione che ciascuno elabora su di sé in base alle caratteristiche che dal suo punto di vista sono presenti o assenti all'interno della sua vita, il sé ideale è invece l'idea di come vorrebbe essere e del modello di vita che sta prendendo in considerazione. L’individuo  percepisce bassa autostima nel momento in cui il suo sé percepito non riesce a raggiungere il livello del suo sé ideale.  Si può arrivare a dire che il senso di autostima derivi dal rapporto tra successo e aspettative, infatti senza dubbio la maggior parte dei fattori che va a condizionare la creazione del personale livello di autostima discende dai risultati/esiti delle prove che siamo chiamati ad affrontare quotidianamente. 

Quanto al sé ideale che ciascuno crea è indispensabile valutare quanto sia “realizzabile” ed in linea con i propri valori ed il proprio potenziale. Sfidarsi verso standard elevati è positivo e motivante, ma porre l’asticella troppo in alto può risultare frustrante ed inadeguato. Di certo se la nostra ambizione è di realizzare un sé ideale troppo grande è probabile che si vada incontro a insoddisfazione che mina conseguentemente la propria autostima.

Infine qualche consiglio pratico per aumentare la propria autostima: scegli cosa vuoi fare perché ti piace e non perché qualcun altro crede che tu debba farlo. Scegli tu i parametri di giudizio della tua persona: peso, alimentazione, letture, studi, abbigliamento. Fermati un attimo e recupera tutte le tue vittorie e tutti i tuoi risultati positivi del passato (che spesso tendiamo a dimenticare). Scegli tu a chi paragonarti. Scegli tu i tuoi obiettivi. Considera tutte le cose in cui sei bravo, anche quelle (e spesso soprattutto quelle!)  che socialmente possono essere poco “in vista” e rilevanti (hobby, passioni, interessi, sensibilità, capacità di apprezzare le cose, amore per determinati ambiti e cose). Rileggi i tuoi “fallimenti” dandogli nuove letture: in che modo ti hanno permesso di crescere, cosa ti hanno insegnato, come ti hanno reso più forte. Rifletti che spesso ciò che gli altri ti hanno detto o ti dicono (genitori, parenti, amici, conoscenti) non nasce da analisi obiettive dei fatti ma da ignoranza, invidia, cattiveria e paura. Ripetiti, come un mantra: “io merito di volermi bene e di stimarmi  ed ho una vita davanti per poterlo fare.

 

 

Abilità relazionale e Gestione del conflitto

La settimana scorsa ho lavorato per tre giorni all’interno di una grande azienda che opera nei mercati della chimica e del tessile. Mi sono trovato in aula dieci neo assunti dall’azienda, ingegneri con età dai 25 ai 27 anni. Il corso che ho erogato aveva come obiettivi lo sviluppo delle seguenti abilità: comunicazione efficace, relazioni interpersonali, leadership, gestione dello stress, sviluppo della propria autostima. Ben presto durante le prime ore del corso sono emerse alcune perplessità da parte dei giovani partecipanti: tutti loro si trovano di fatto all’interno di stabilimenti di produzione a doversi relazionare con operai molto più anziani di loro, alcuni dei quali lavorano all’interno dell’azienda da oltre vent’anni. Alcuni dei giovani ingegneri mi hanno chiarito ulteriormente la sfida che si trovano a vivere quotidianamente: devono essere in grado di coordinare, farsi rispettare, ottimizzare flussi e processi, dando direttive a persone che li percepiscono come giovani, inesperti, capaci solo di riempirsi la bocca di paroloni e teoria ascoltata nelle aule universitarie e letta sui libri di testo. Come se non bastasse tali neolaureati devono anche essere in grado di riprendere gli operai che commettono errori, che non sono precisi, che non si attengono a determinate procedure di funzionamento degli stabilimenti. La percezione dei giovani ingegneri è quella di essere in una posizione scomoda, in mezzo a due direttrici opposte: da una parte l’azienda che li ha assunti con l’obiettivo di migliorare la produttività degli stabilimenti con l’ausilio delle loro conoscenze ingegneristiche, dall’altra gli operai, persone dai 40 ai 50 anni, che non vedono di buon occhio il loro operato e le loro direttive, perché qualsiasi loro decisione comporta il fatto di rimettere in discussione le routine lavorative generando di fatto maggior lavoro, maggiore sforzo, maggiore impegno, senza che tutto ciò porti loro aumenti di guadagno in termini economici. E’ evidente come tali dinamiche generano stress e rischiano di minare l’autostima dei giovani. Ciò che ho ascoltato dai giovani ingegneri, mutatis mutandis, testimonia ciò che accade quotidianamente quando un neolaureato, inevitabilmente giovane ed inesperto a livello lavorativo, si trova di fronte persone che lavorano da molti anni e che non gradiscono particolarmente l’interferenza di qualcuno “a digiuno” di esperienza che in qualche modo dica loro come fare meglio qualcosa. Dal momento che a tutti i giovani laureati capiterà prima o poi di trovarsi in una realtà analoga il mio consiglio è quello di iniziare sin da ora ad esercitarsi nelle dinamiche relazionali e di comunicazione efficace. Partendo dal presupposto che le differenze di età e di seniority non possono essere modificate, l’unica cosa che rimane da fare è capire come fare a relazionarsi meglio, a comunicare efficacemente e sapersi porre in modo tale da farsi percepire “amici”, membri di uno stesso team, persone che hanno l’intenzione di rispettare la seniority maggiore di altri ma capaci al contempo di sapersi far ascoltare e seguire. A tale riguardo può essere una buona idea quella di accompagnare lo studio dei libri di testo universitario con libri che parlino di dinamiche relazionali, capacità di vendere le proprie idee, sviluppo di leadership intesa soprattutto come la capacità di ispirare e farsi seguire. Alcuni consigli pratici per relazionarsi in generale con chiunque ci si trovi dinnanzi possono essere: chiamare la persona per nome, essere pronti a lodare i buoni risultati e le qualità delle persone, evitare di dire direttamente che qualcuno ha sbagliato, specie se sono presenti altre persone, far notare gli errori commessi in modo indiretto, far partecipare le persone a processi decisionali, utilizzando il loro contributo per arrivare a decidere cosa fare e in che modo. In linea di massima conviene allenarsi a riflettere che la realtà delle cose non è che un’interpretazione soggettiva delle persone che seguendo propri schemi, filtri, valori. Per tornare all’esempio dei giovani ingegneri all’interno di uno stabilimento è utile considerare che da una parte hanno ragione loro a dire che non è giusto che si trovino di fronte operai che senza avere le loro conoscenze e competenze si rifiutano di seguire le loro indicazioni. Dall’altra parte è utile mettersi nei panni degli operai: non è semplice accettare il fatto di trovarsi di fronte ad un giovane di 25 anni che, fresco di laurea e senza essersi mai “sporcato le mani” con macchinari e attrezzature, inizi ad impartire loro direttive.. Non è difficile comprendere che magari gli operai invidiano i giovani ingegneri che hanno avuto la possibilità di studiare.. Se è vero che nel mondo vige il libero arbitrio non si può dimenticare che non a tutti vengono date le stesse possibilità: magari ad alcuni degli operai sarebbe piaciuto laurearsi ma non ne hanno avuto la possibilità. Ecco dunque che conviene imparare a sapersi porre. Sarebbe del tutto sterile e dannoso da parte dei giovani ingegneri pretendere rispetto: quest’ultimo può infatti solamente essere guadagnato. Ciò che ho detto loro e che dico a voi tutti è che conviene rispettare le persone e trovare il modo di convincerle che non si è antagonisti ma coprotagonisti di una stessa realtà. E’ fondamentale trovare la complicità delle persone che abbiamo di fronte, sia nel lavoro che nella vita. Specie se ci troviamo a confrontarci con persone più grandi ed esperte di noi (anche se si tratta di esperienza differente di quella nostra specifica per la quale abbiamo studiato) è utile metterle al centro dell’attenzione, chiedere il loro parere, utilizzare i loro spunti, invitarle a vedere le cose dal nostro punto di vista. Ai giovani ingegneri ho infatti detto: “con i più ostili degli operai provate a dire loro che l’azienda vi sta pagando perché ottimizziate dei flussi e dei processi e che se ciò non avviene potreste essere licenziati. Di conseguenza chiedete agli operai cosa farebbero al posto vostro.. E continuate dicendo che è innegabile che loro abbiano anni e anni di esperienza con i macchinari e che senza la loro esperienza e conoscenza l’impianto si fermerebbe; chiedete loro consigli su come ottimizzare le cose, riconoscete loro che hanno operato in modo lodevole; al contempo aggiungete che la loro esperienza, unitamente ai vostri studi specialistici possono garantire che gli stabilimenti di produzione rimangano in vita e che tutti mantengano il posto di lavoro, ma che se invece non si genera la giusta sinergia diventa a rischio sia il vostro che il loro posto di lavoro..”. Alcuni degli ingegneri che sono nell’azienda da oltre un anno hanno confermato che questo è l’approccio che paga di più, avendolo visto applicare dai loro colleghi più anziani.. Dunque preparatevi alle sfide che vi presenterà la vita, sia in ambito personale che lavorativo, considerando che la strategia, la sensibilità, la flessibilità ed il rispetto pagano molto di più della forza e dell’essere autoritari.

 

 

Per vendere smetti di vendere!

Correva l’anno 2006 quando mi ritrovai per la prima volta ad una convention mondiale della Dale Carnegie Training. Miami, dicembre, sala conferenze nella quale colleghi da tutto il mondo e ospiti di altre aziende arrivavano per prendere posto. Fui uno dei primi ad arrivare in sala e c’erano poche persone. Ad un tratto mi venne incontro un arzillo vecchietto che dimostrava più o meno un’ottantina di anni. Non appena giuntomi dinanzi mi sorrise, mi porse la mano, si presentò e mi chiese il mio nome. Dopo un breve scambio di circostanza e vari commenti sull’Italia, le bellezze architettoniche nostrane e la ricchezza di paesaggi mi guardò fisso negli occhi e in modo affabile e stimolante mi disse: “Stefano, insegnami qualcosa di nuovo che io non sappia già”. Rimasi sorpreso e anche un po’ stranito. Per cui gli risposi: “Prego? Temo di non aver capito la domanda..”. E lui di nuovo, ancora più gentile ed affabile: “Stefano sono molto curioso, tu sei straniero, sei un coach, incontri tanta gente, sei giovane, guardi il mondo ogni giorno con occhi diversi dai miei.. dimmi qualcosa, raccontami qualche storia, arricchiscimi..”. A quel punto mi sentii ispirato ed importante. Capii che il vecchietto non stava scherzando. Desiderava davvero che io gli raccontassi qualcosa. E così feci. Per tutto il tempo durante il quale parlai rimase attento e curioso, con gli occhi spalancati e uno sguardo di chi è realmente assetato di fronte ad una fonte d’acqua. Al termine delle mie parole, mi disse in modo autentico e cordiale: “Thank you very much. I appreciate. Grazie, apprezzo”. Congedatomi da lui cercai subito qualche mio collega. Ero troppo curioso di sapere chi fosse quel vecchietto. Ben presto scoprii che Dan era stato per oltre trenta anni un venditore della Dale Carnegie Training, uno dei migliori ed uno dei pochi venditori ancora in vita formatosi direttamente con Mr Dale Carnegie in persona. Oramai in pensione continuava ad essere presente a tutte le convention annuali per senso di appartenenza, passione, amore per la vendita. Dan aveva la vera anima del venditore, il vero segreto, la vera essenza. Si era interessato, mi aveva fatto sentire importante, mi aveva fatto molte domande ed era rimasto in ascolto empatico, vero, autentico. Dan non doveva vendermi nulla, eppure attraverso un’autentica curiosità e la potente convinzione che chiunque ha qualcosa da insegnarci era riuscito ad avere ascendente su di me, a colpirmi nel profondo, a stimolarmi. Senza che io glielo chiedessi mi aveva dato senza dubbio una delle più grandi lezioni sulla vendita che io abbia mai ricevuto ad oggi. Di fatto mi aveva venduto la sua persona e la sua azienda in modo autentico, vibrante, potente. Da quel giorno ho maturato la convinzione che vendere è semplice se si smette di vendere! Sì, proprio così. Nel momento in cui si desidera realmente vendere è necessario spegnere l’ego saccente che c’è in noi. E’ necessario “diventare” il potenziale compratore. E se si diventa in tutto e per tutto, profondamente ed autenticamente il potenziale compratore si cambia automaticamente prospettiva. Si inizia a fare domande vere, aperte, con la mente sgombra e pronta ad analizzare attentamente tutto ciò che si ascolta. Se si fanno domande per comprendere le reali esigenze del cliente e se si ascolta davvero ciò che questi ci dice la vendita diventa una conseguenza automatica e naturale. Certo esiste vendita e vendita, esistono prodotti e servizi differenti, tipologie di trattative diversissime tra loro, esistono molteplici variabili che possono entrare in gioco, specie nella vendita strategica e complessa. Esistono al contempo una serie di costanti che accomunano tutte le relazioni di vendita. Queste costanti si chiamano: ascolto, empatia, curiosità, domande intelligenti e acute, desiderio di scoprire autenticamente chi si ha di fronte. Per vendere a qualcuno ciò che realmente lo soddisferà bisogna smettere di pensare di sapere a priori ciò di cui può avere bisogno. Se invece non si entra in quest’ottica si rischia di cadere in una trappola rischiosa. Molti sedicenti venditori infatti si strutturano mentalmente con una serie di prodotti e/o servizi da offrire e poi vanno alla ricerca di persone da abbinare alla loro offerta. Approcciano avendo in mente il loro servizio/prodotto e cercano nell’interlocutore l’appiglio per “piazzare” la loro offerta. L’approccio del vero venditore deve invece essere diametralmente opposto: relazionarsi all’interlocutore con la mente totalmente sgombra, raccogliendo informazioni, studiando chi si ha di fronte, il suo mondo, la sua realtà, le sue esigenze, le sue richieste. Una volta che l’interlocutore si è aperto totalmente e ha dato sufficienti elementi che lo raccontino diventa molto più facile far sì che sia lui stesso a dire: “cosa mi consigliate?” Le persone sono uniche, le aziende sono uniche, i clienti sono unici. E rivendicano unicità di approccio. Il segreto della vendita consiste nel raggiungere questa consapevolezza: “le persone sono diverse, scelgono in base a parametri diversi, per motivi diversi, le persone hanno dinamiche interne molto delicate e complesse che le spingono a operare scelte che volendo rimanere entro parametri di logica soggettiva possono sembrare assurde e senza senso. Le persone desiderano essere ascoltate, comprese, aiutate a capire. Le persone scelgono identici prodotti e servizi per i motivi più disparati. Le persone vogliono rivendicare la propria facoltà di scelta”. Alla luce di tali considerazioni è assolutamente improduttivo e rischioso porsi al di sopra di chi si ha di fronte! E’ poco proficuo pensare di poter catalogare le persone e le loro esigenze. E’ addirittura stupido pensare di intuire immediatamente quali siano le esigenze di chi si ha di fronte e dunque pensare di convincerlo istantaneamente che si abbia la soluzione giusta. Le persone vogliono avere la facoltà di scelta, vogliono la maggior parte delle volte rivendicare il diritto di essere arrivate da sole a dire di cosa hanno bisogno, sebbene spesso non ne abbiano la più pallida idea. Così come possono invece avere da subito un’idea di ciò che gli occorre ma anche in questo caso conviene verificare attentamente se ciò che ci chiedono può soddisfare realmente le loro esigenze: diversamente il rischio è che rimangano deluse dall’acquisto e che non parlino bene di noi e dei nostri prodotti/servizi. Ecco perché il vero venditore chiede, chiede e chiede ancora, approfondisce, chiede e richiede. Incamera dati, li elabora, fa delle ipotesi ma verifica, prima di passare a conclusioni azzardate. Si mette realmente nei panni di chi ha di fronte, vede con i suoi occhi, sente con le sue orecchie. Solamente dopo che ha raccolto dati, tanti dati, diventa in grado di dire: “ti conosco, ti ho compreso, mi sono messo nei tuoi panni, ho visto con i tuoi occhi e sentito con le tue orecchie e alla luce di tutto ciò che ho visto e sentito prospetto delle possibilità che possono farti ottenere ciò che soddisfa le tue esigenze”. In questo modo il cliente diventa libero di scegliere, ma sceglie tra possibilità che lui stesso ha contribuito a generare. Questo è “win-win”, questa è relazione, questo è rispetto autentico. Questa è la vendita di cui mi piace parlare e vivere. Questa è la vendita che consiglio ed auguro a ciascuno di voi. Che si tratti delle vostre idee, di servizi o prodotti che proponete: se volete vendere smettete di vendere!

 

 

 

Osa!

Osa può essere inteso come “esortazione ad osare” ma anche come l’acrostico di un metodo che permette di raggiungere più risultati. In quest’ultimo caso infatti l’acrostico sta per Obiettivo – Scopo – Azione. Il presupposto di partenza di tale metodo è che per produrre risultati nella propria vita debbano essere chiari una serie di elementi che lavorano in sinergia tra loro. Il primo di tutti è dato dall’obiettivo. Un obiettivo rappresenta la “cosa concreta” che vogliamo raggiungere. Affinché risulti ben identificato un obiettivo dovrebbe possedere alcune caratteristiche. Anche in questo caso ci viene in aiuto un altro acrostico, inglese: SMART che significa “intelligente”. Un obiettivo dovrebbe infatti essere  “S” - specifico, “M“ - misurabile, “A” – Attainable, cioè accessibile, raggiungibile, “R” – realistico, “T” – Time Bound, Timely, cioè definito nel tempo. Una volta che un obiettivo sia stato chiaramente definito utilizzando l’acrostico SMART abbiamo compiuto il primo step della metodologia OSA. Il passaggio successivo sarà dato dal chiarire qual è lo scopo che si nasconde dietro l’obiettivo. Infatti il raggiungimento dell’obiettivo in sé può voler dire poco.. Ciò che conta realmente è lo scopo che ci permette di conseguire il raggiungimento dell’obiettivo. Ad esempio l’obiettivo “dedicare 3 ore al giorno allo studio della disciplina xyz” è funzionale al raggiungimento di uno scopo che dovrebbe essere chiarito per rendere più stimolante il perseguimento dell’obiettivo. Dietro il raggiungimento dell’obiettivo “studio di xyz” si possono infatti nascondere differenti tipologie di scopi: “diventare indipendente nella capacità di..”, “provare soddisfazione e piacere”, “sentirsi importante agli occhi di qualcuno”.. E’ fondamentale riflettere su quali scopi si celino dietro il raggiungimento di determinati obiettivi che ci siamo posti, altrimenti si perde una grande occasione di trovare il vero ed autentico slancio motivazionale per produrre risultati. Una volta identificati gli scopi dietro i nostri obiettivi si passa alla terza componente della metodologia, l’azione. Dunque una volta che abbiamo ben chiaro cosa vogliamo raggiungere e perché diventa indispensabile programmare una strategia di azione che ci consenta di raggiungere il nostro obiettivo. OSA, Obiettivo, Scopo, Azione rappresenta un semplice eppur potentissimo approccio in grado di rivoluzionare il nostro rendimento, i nostri risultati, la nostra crescita. Visto in quest’ottica il ragionamento può anche lasciare intendere che a volte sia opportuno partire dagli scopi che si vuole raggiungere nella propria vita, per poi identificare quali siano gli obiettivi necessari da raggiungere e successivamente quale sia la strategia di azione ottimale perché ciò avvenga. Dunque avete a disposizione due ordini di possibilità. Da una parte potete partire dagli obiettivi che vi siete già prefissati, ponendo attenzione che siano ben formulati (SMART) e che siano legati a degli scopi sottostanti, per poi dare vita ad una strategia concreta di azioni per raggiungerli. Alternativamente potreste invece fermarvi a decidere quali siano gli scopi che volete perseguire nella vostra vita e solo successivamente identificare obiettivi SMART e strategie di azione per raggiungerli. A voi la scelta. A me non rimane che dirti, caro lettore, osa!

 

 

Realizzate i vostri sogni d'infanzia

Immaginate che vi dicano che vi restano pochi mesi di vita e che potete riflettere sul senso della vita. Quali sarebbero le vostre considerazioni? Cosa consigliereste a chi ha ancora un’intera vita davanti? Tale circostanza è accaduta realmente a Randy Pausch, informatico statunitense, passato a miglior vita il 25 luglio 2008 dopo che nel luglio del 2006 gli era stato diagnosticato un cancro al pancreas e gli avevano dato pochi mesi di vita. Randy Pausch è stato invitato a tenere la sua ultima lezione pubblica, la “last lecture” intitolata “Realizzate i vostri sogni d’infanzia” ("Really Achieving Your Childhood Dreams"), presso la Carnegie Mellon University il 18 settembre 2007. Consiglio vivamente a tutti i lettori di questa rubrica di andare su internet e vedere la “last lecture” integralmente, basta digitare su un qualsiasi motore di ricerca il suo nome e cognome per trovare il video della sua ultima lezione in lingua originale e con i sottotitoli in italiano, per chi non conosce l’inglese. Sarebbe riduttivo ed inutile in questo articolo voler raccontare tutta la ricchezza delle sue parole. D’altra parte solo ascoltando la sua voce e guardando l’energia del suo corpo si può apprezzare appieno l’enorme valore di questa persona. In questo articolo mi limiterò invece a fare qualche osservazione personale, dal momento che ho guardato questo video, ne ho trascritto integralmente tutte le parole e lo consulto ogni qual volta sento di avere bisogno di stimoli per recuperare l’energia  e lo slancio indispensabili per vivere appieno la mia vita. Randy Pausch esordisce nella sua “ultima lezione” dicendo: “se pensate che debba essere triste sapendo che mi restano pochi mesi di vita e che presto lascerò una moglie e tre figli, dovrò deludervi”. E continua dicendo: “Non ho intenzione di piangere o compatirmi. Sono qui per raccontarvi quali erano i miei sogni d’infanzia e di come li ho realizzati”. Capite? Un uomo che sa di andare incontro alla morte a causa di un cancro che decide di dare a tutto il mondo un grande insegnamento, un inno alla vita e alla vitalità, un’iniezione di motivazione per credere nei propri sogni e nella possibilità di realizzarli. Tra tutti i concetti toccati nella sua ultima lezione ce ne sono alcuni che mi hanno colpito in particolar modo e che desidero condividere con voi. Partirei con il considerare le sue parole sulle difficoltà che si possono incontrare nella vita: “"Ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura ci teniamo. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarlo. Sono lì per fermare gli altri". Mi piacciono queste parole, fanno riflettere sul fatto che gli ostacoli ci sono per tutti e sempre ci saranno. La domanda chiave dunque non è “perché ci sono”?, quanto piuttosto: “dal momento che desidero raggiungere un obiettivo, come posso superare questi ostacoli, questi muri”?  Successivamente Randy tocca un altro aspetto importante quando racconta: “Mi lamentavo con mia madre di quanto fosse difficile quell'esame all'università, e di quanto fosse spaventoso. Lei si inclinò verso di me, mi diede un buffetto sulle spalle e mi disse: «Sappiamo bene come ti senti, tesoro, ma ricorda, tuo padre alla tua età combatteva contro i tedeschi»". In effetti mi ha colpito molto questo passaggio, perché nel mio caso personale ripenso a mio nonno che all’età di sedici anni era con un fucile in mano a combattere. Dovremmo imparare a guardare le cose in prospettiva e a considerarci fortunati a non aver avuto “muri enormi che hanno avuto altre persone”. Proseguendo nella sua lezione Randy dice: “Sto per morire e mi sto divertendo. E continuerò a divertirmi ogni giorno che ancora mi resta da vivere. Perché non c’è un altro modo per farlo". Credo che questa sia una perla di saggezza assolutamente unica! Nella vita conviene divertirsi qualsiasi cosa si decida di fare. Decidere di divertirsi è una scelta alla portata di tutti, è un fatto di atteggiamento mentale; come abbiamo già visto in altri articoli l’atteggiamento mentale dipende da noi, soltanto da noi. Possiamo decidere cosa vogliamo fare e come farlo. Dunque ogni giorno continuo a ripetere a me stesso e consiglio a tutti voi: divertitevi, divertiteti, divertitevi. Avete una sola vita per farlo. Decidete di farlo, lo meritate ed è alla vostra portata. Fanno riflettere molto anche le sue parole quando dice: “Non perdete mai la capacità di stupirsi tipica dei bambini. È troppo importante. È quella a spingerci ad andare avanti, ad aiutare gli altri”. Queste parole fanno riflettere almeno su due fronti: da una parte conviene mantenere la curiosità e lo slancio dei bambini, perché in questo modo ci si mantiene vivi e proattivi. Sull’altro fronte questo consiglio implica che in tal modo si riesce ad aiutare gli altri: quest’ultima attività è di vitale importanza perché arricchisce e completa al contempo la nostra esistenza. Dunque trovate un modo, un’attività per rendervi utili agli altri e divertitevi nel farlo. Passando ad altro punto saliente della sua lezione troviamo un altro prezioso consiglio nelle sue parole: “Non si può arrivare in cima da soli. Qualcuno deve aiutarti. Io credo nel karma. Credo che si riceve ciò che si è dato”. Queste parole parlano dell’importanza di coltivare la capacità di relazionarsi con gli altri, l’importanza del vivere nell’ottica di condividere progetti con altri. Ciò che è possibile ottenere con altri è impensabile da compiersi da soli. C’è poi un’altra grande convinzione positiva nelle parole di Randy: che si riceva prima o poi indietro quanto si è donato. Anche io ho questa convinzione. La vita mi ha già dato prove di questa verità. Consiglio anche a voi di entrare in quest’ottica. Sarete più ricchi, più vivi, più pieni. Ci sono poi nelle parole di Randy altri preziosi consigli che lui ha imparato dalla vita. Di particolare impatto il messaggio contenuto nelle sue parole: “Non lamentatevi. Lavorate più duramente. Non cedete. L’oro migliore è quello che giace in fondo ai barili di merda”. Uno stile comunicativo pragmatico e anche un filo colorito; di sicuro impatto! Basta lamentarsi! Le sue parole mi hanno fatto tornare alla mente un altro aforisma tra i miei preferiti: “Le perle migliori giacciono in fondo all’oceano”! Dunque se volete dei risultati degni di nota, se volete vera soddisfazione è importante entrare nell’ottica di lavorare sodo, di fare sacrifici, di sopportare fatica e sudore. C’è grande saggezza e grande slancio anche nelle parole in cui Randy affronta il tema della fortuna: “La fortuna è quel momento in cui la preparazione incontra l’opportunità”. La vita ci regalerà molteplici occasioni “fortunate”..ma dovremo essere sufficientemente attenti da accorgercene e sufficientemente preparati da cogliere tali occasioni! Sul tema della fortuna Randy chiarisce ulteriormente il suo punto di vista: “La fortuna ce la creiamo da soli, chi più sa più vale”. Homo faber sui: uomo artefice del proprio destino. C’è infine un ultimo passaggio che mi ha colpito notevolmente, quello con il quale Randy conclude la sua ultima lezione: “Se vivrete nel modo giusto, il karma si prenderà cura di sé. I sogni verranno da voi”. Come  anticipavo all’inizio dell’articolo mi sono limitato a riportare solo alcuni concetti toccati da Randy Pausch. L’intera lezione è ricca di molte altre riflessioni che meritano di essere ascoltate dalla sua bocca. Mi limito a rinnovarvi il consiglio di trovare in rete la sua ultima lezione e riflettere su quanto ci viene consigliato. Ciò che io continuo a ripetermi quotidianamente è “imparare a guardare la vita con occhi nuovi. Questo credo sia il senso più profondo della lezione di Randy Pausch. Lo ricordo a me stesso ogni giorno, mi permetto di ricordarlo a voi in questo articolo. 

 

 

Metti i tuoi obiettivi per iscritto!

Mettere per iscritto i propri obiettivi aumenta la probabilità di raggiungerli. Tale assunto è confermato da innumerevoli testimonianze e diversi studi condotti in giro per il mondo. Soprattutto negli USA sono state condotte diverse ricerche su studenti al termine del loro corso di studi. Ad un campione di studenti è stato chiesto di mettere per iscritto quali obiettivi si ponevano, dove si vedevano e a fare cosa nell’arco degli anni successivi, mentre ad un altro campione di studenti non è stato chiesto nulla. A distanza di tre anni i ricercatori sono andati a verificare i risultati raggiunti dai due campioni di studenti presi in esame. Il risultato dell’analisi fu sorprendente: la quasi totalità degli studenti che avevano messo per iscritto i propri obiettivi (e il proprio scenario futuro) li aveva di fatto raggiunti, mentre gli studenti del secondo campione (quelli che non avevano messo per iscritto i proprio obiettivi) si dichiarava insoddisfatto del proprio stato attuale e svolgeva attività a volte ben lontane dalle competenze degli studi effettuati. Il consiglio per tutti dunque è quello di prendersi del tempo per decidere quali obiettivi sono veramente importanti e di pianificarli nel tempo, da ora in poi. Ciascuno di noi ha la possibilità di darsi una ben precisa direzione e di indirizzare il proprio inconscio verso il raggiungimento di ciò che maggiormente lo stimola. Si tratta in buona sostanza di prendere un foglio e una penna, dedicarsi qualche ora e scrivere. Alcune persone sono scettiche riguardo la reale efficacia e necessità di mettere in forma scritta i propri obiettivi. Pensano che “tanto gli obiettivi sono nella mente, basta pensarci di tanto in tanto per ricordarseli..”. In realtà invece il fatto di scrivere rappresenta un fortissimo stimolo, genera costante consapevolezza, indirizza la mente durante le vicende quotidiane che possono distrarre ed attirare verso altre direzioni. Scrivere rappresenta il primo passo. Il secondo passo è dato successivamente dal rileggere tali obiettivi almeno una volta alla settimana (sarebbe ancora meglio quotidianamente!). In questo modo manteniamo il giusto focus mentale sulla direzione che abbiamo deciso di seguire. Di sicuro può capitare di modificare i propri obiettivi. L’importante è che siamo consapevoli dei cambiamenti che avvengono nella nostra vita e nella nostra persona. Dunque il mio consiglio è il seguente: prenditi del tempo, quando ti senti ispirato/a e metti per iscritto quali sono i tuoi obiettivi per i prossimi 2-3 anni. Tieni quel foglio (o diario, quaderno..) a portata di mano e rileggi ciò che hai scritto spesso, almeno una volta la settimana. Chiediti dunque cosa stai facendo per avvicinarti al raggiungimento dei tuoi obiettivi. Se non sei contento dei risultati che ottieni, se vedi che rimani lontano dal raggiungimento dei tuoi obiettivi, rifletti: o hai scritto obiettivi che non ti stimolano sufficientemente oppure devi modificare la strategia per realizzarli. Nel primo caso: cambia obiettivi. Nel secondo caso chiediti: quali errori sto commettendo? Quale azione devo cambiare? Cosa devo e posso fare di diverso? Quali comportamenti devo evitare di compiere? Quali nuovi comportamenti devo e posso includere nelle mie giornate? Che ci piaccia o meno o decidiamo noi cosa vogliamo e dove vogliamo andare oppure sarà qualcun altro a deciderlo per noi. Come sostiene Antony Robbins, formatore e motivatore americano, vale la pena riflettere sul fatto che: “E’ nel momento delle decisioni che si plasma il nostro destino”.